Il tema della responsabilità degli enti si inserisce nella profonda evoluzione che attraversa oggi il diritto penale. E infatti, la tradizionale fenomenologia del crimine si incentrava sulle persone fisiche, sui reati dolosi, agganciata a precisi parametri spazio-temporali e in un’ottica esclusivamente nazionale. La realtà odierna mette in crisi questi pilastri.
In primo luogo, la dottrina ha affiancato allo studio delle fattispecie dolose, il modello dei reati colposi, relativi ad attività in base lecite, come avviene tipicamente nell’ambito dell’impresa, per effetto dello sviluppo economico e industriale. In secondo luogo, come si vedrà nel dettaglio, oggi tra gli attori del crimine, o meglio tra “i co-protagonisti della vicenda punitiva”, possono annoverarsi, per dimensioni e capacità lesive, anche le imprese, che agiscono sulla base di politiche aziendali non di rado orientate alla compromissione di beni costituzionalmente rilevanti. Infine, per effetto della globalizzazione, il contrasto ai reati non è più limitato ai confini statali, occorrendo muovere oltre il paradigma dei sistemi penali costruiti su misura dello stato-nazione, a favore di una internazionalizzazione del contrasto penale.
La delocalizzazione delle mafie
Sotto tale profilo, la dottrina ha da tempo analizzato il fenomeno della delocalizzazione delle mafie, ossia della capacità delle organizzazioni di insediarsi in territori diversi da quelli di origine, per le stesse ragioni delle imprese multinazionali lecite, dando vita a cellule o articolazioni solo formalmente periferiche, ma che in realtà possiedono e utilizzano lo stesso repertorio di violenza e intimidazione.
Ancora, gli studi più recenti hanno confermato che, sfruttando i vantaggi della globalizzazione, le associazioni mafiose di diverse aree del mondo hanno dato vita ad un network criminale capillare ed efficiente. A questa dimensione internazionale, quindi, si aggiunge anche una caratterizzazione delle mafie in senso economico.
In altri termini, rispetto al passato la criminalità organizzata si caratterizza sempre meno come struttura paramilitare e sempre più come entità economica, prediligendo strumenti alternativi all’uso della forza. Grazie alla capacità di adattarsi e mutare a seconda delle circostanze storiche, esse si sono evolute da fenomeno prevalentemente locale, rurale e contadino, all’essere a tutti gli effetti delle vere e proprie multinazionali attrici del sistema economico e finanziario internazionale, che offrono beni e servizi direttamente sul mercato e in concorrenza con le imprese lecite.
In generale, la storia delle mafie è caratterizzata da una mutevole sintesi tra il controllo del territorio e la creazione di partnership con la realtà economica esterna, tra power syndicate ed enterprise syndicate, tra la struttura territoriale e il netowork affaristico.
È proprio questa doppia identità l’aspetto più insidioso delle organizzazioni criminali, potendo le stesse conciliare modelli alternativi, quello del controllo del territorio e quello dell’investimento economico, il metodo violento e quello corruttivo.
Di fronte a questo, non è più sufficiente una repressione condotta dai singoli ordinamenti in modo isolato e senza una visione complessiva; è quindi indispensabile costruire una rete di giustizia penale il più possibile coesa, basata su un’armonizzazione giuridica, sul coordinamento delle indagini, sulla condivisione delle informazioni e sulla specializzazione degli operatori giuridici.
Fenomenologia del crimine: lo schermo societario per celare responsabilità individuali
La fenomenologia del crimine è quindi caratterizzata dall’utilizzo sistematico dello schermo societario, sia per celare le responsabilità individuali, sia per riciclare i proventi illecitamente accumulati. Da qui l’importanza di introdurre adeguate forme di responsabilità degli enti.
Questo istituto ha acquisito un’importanza crescente anche a livello internazionale. La globalizzazione e lo sviluppo delle relazioni economiche, insieme ai pericoli per i diritti umani hanno reso evidente che anche le imprese debbano rispondere per la lesione di beni giuridici universalmente riconosciuti, tra cui l’ambiente.
Il tema in esame presenta quindi una duplice complessità, sia in relazione alla difficoltà tradizionale di perseguire soggetti diversi dalle persone fisiche, sia per deterritorializzazione del potere economico, con la possibilità delle imprese di operare in territori diversi. In questa materia convivono contrapposti interessi costituzionalmente rilevanti, e non è sufficiente adottare un approccio meramente retributivo, essendo per contro necessario trovare un adeguato compromesso tra diritti e sviluppo economico, sulla base di una più ampia strategia di regolazione dell’economia, volta ad incentivare le attività produttive lecite.
Come superare il dogma «societas delinquere non potest» nell’ordinamento italiano
Come noto, l’art. 1 del D.lgs. 231/2001, parla di responsabilità “amministrativa da reato”. In tal modo, si evidenzia come la responsabilità della persona giuridica si fondi su un reato, da cui emerge, salvo prova contraria, un fatto illecito di natura amministrativa ad essa addebitabile, consistente nella citata colpa di organizzazione. In altri termini, l’illecito amministrativo presuppone il reato della persona fisica ma, pur essendo geneticamente collegato, non si confonde con esso, ha una struttura autonoma ed un accertamento fondato su requisiti diversi.
Nonostante l’etichetta utilizzata, la dottrina si è da subito divisa circa la natura giuridica della nuova figura. Una prima tesi sostiene la natura amministrativa, argomentando dalla lettera della norma e dalla natura delle relative sanzioni. Inoltre, si è osservato che la natura penale della responsabilità renderebbe la disciplina del d.lgs. 231 in contrasto con diversi principi costituzionali. In particolare, il rischio di incostituzionalità riguarderebbe il meccanismo di inversione dell’onere probatorio, di cui all’art. 6 D.lgs. 231/2001, asseritamente contrastante con la presunzione di non colpevolezza, la disciplina dell’archiviazione ex art. 58, ritenuta non coerente con il principio di obbligatorietà dell’azione penale dell’art. 112 Cost., e gli artt. 28-33 relativi alle modifiche soggettive degli enti che, lasciando immutata la responsabilità degli enti risultanti dalle vicende modificative, contrasterebbe con il principio di personalità della responsabilità penale.
A sostegno della contrapposta tesi penale, altra parte della dottrina adduce diversi argomenti. In primo luogo, l’argomento letterale non sarebbe decisivo, essendosi qualificata, con una sostanziale “frode delle etichette”, come amministrativa una responsabilità con tratti penali.
In secondo luogo, il principio “societas delinquere non potest” deve ritenersi ormai superato, considerando che la disciplina del decreto, attesa la valorizzazione della colpa di organizzazione, appare coerente con il principio di personalità della responsabilità.
In favore della natura penale della responsabilità, si evidenzia che l’ente risponde per la commissione di un reato, accertata dal giudice penale all’interno del processo penale, con l’irrogazione di sanzioni afflittive e stigmatizzanti. Ancora, in questa direzione andrebbero altri indici, come la citata autonomia della responsabilità dell’ente rispetto a quella della persona fisica ex art. 8 d.lgs. 231/2001, la trasposizione dei principi di legalità, irretroattività, e retroattività della lex mitior, il sistema della commisurazione delle pene pecuniarie, di tenore penalistico, la previsione all’art. 26 del tentativo e la rinunciabilità dell’amnistia.
Alcuni studiosi, in passato, hanno sostenuto la natura penale della responsabilità dell’ente inquadrando il modello in esame anche nel concorso di persone nel reato.
La posizione della giurisprudenza di legittimità è stata oscillante, ed è pervenuta ad una sintesi solo di recente. Alcune pronunce hanno sostenuto la tesi penale, affermando che il D.lgs. 231/2001, sanzionando la persona giuridica in via autonoma e diretta, nel processo penale, supera chiaramente il principio societas delinquere non potest.
Nonostante il nomen iuris, quindi, la nuova responsabilità ha natura sostanzialmente penale.
Infatti, l’ente è il vero istigatore, esecutore e beneficiario della condotta criminosa materialmente commessa dalla persona fisica.
Altra parte della giurisprudenza ha abbracciato, invece, la tesi della natura amministrativa; nella specie, si è evidenziato che, anche se presuppone la commissione di un reato, la responsabilità dell’ente è autonoma rispetto a quella penale, che ha natura personale.
Sulla base dell’art. 8 d.lgs. 2312/2001, che lascia ferma la responsabilità dell’ente anche quando l’autore del reato non è identificato o non è imputabile, la Cassazione evidenzia non tanto l’autonomia delle due fattispecie, ma soprattutto l’autonomia delle due condanne sotto il profilo processuale.
Perché l’ente sia sanzionato, occorre il compimento di un reato, ma non anche l’individuazione e condanna del responsabile. La società può essere sanzionata in via amministrativa anche se la responsabilità della persona fisica è ritenuta sussistente in via incidentale. Questa ricostruzione è avvalorata anche dall’intenzione del legislatore di non escludere la responsabilità dell’ente quando non sia possibile punire un determinato soggetto ma sia accertata la sussistenza del reato.
Peraltro, gli ultimi arresti della giurisprudenza hanno enfatizzato la natura composita della responsabilità dell’ente, costituente un tertium genus rispetto alla responsabilità amministrativa e a quella penale. Secondo le Sezioni Unite, questo sistema è compatibile con i principi costituzionali di legalità e colpevolezza, in quanto grava pur sempre sulla pubblica accusa l’onere di dimostrare l’esistenza dell’illecito dell’ente; quest’ultimo ha solo l’onere di provare la preventiva adozione ed efficace attuazione di modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire reati come quello verificatosi.
Il fatto si considera proprio dell’ente in quanto realizzato da un soggetto inserito organicamente nella persona giuridica. Dal punto di vista processuale, l’accertamento della responsabilità dell’ente e l’applicazione delle sanzioni sono affidati al giudice penale, nell’ambito di un procedimento rispettoso delle garanzie del processo penale. Le sanzioni previste dal decreto 231/2001 hanno un carattere fortemente afflittivo e non meramente riparatorio.
A tal fine, il legislatore ha previsto un procedimento differenziato rispetto a quello ordinario seguito presso il tribunale collegiale. Ai sensi dell’art. 34 d.lgs. 231/2001, le regole del procedimento sono quelle del codice di procedura penale in quanto compatibili, e l’ente è giuridicamente equiparato all’imputato. La competenza ad accertare l’illecito dell’ente è del giudice competente per materia, territorio e connessione, in ordine al reato da cui esso dipende.
Può parlarsi quindi di una competenza ricavata per derivazione. Da quanto affermato si evidenzia uno stretto legame tra il procedimento a carico della persona fisica e quello a carico dell’ente, confermato anche dal successivo art. 38, che stabilisce il principio della riunione dei procedimenti, nella logica del simultaneus processus. Peraltro, come si è anticipato, la responsabilità dell’ente è autonoma e prescinde dalla punibilità in concreto della persona fisica autrice del reato presupposto, non rilevando che quest’ultima non sia stata identificata o non sia imputabile, ovvero che il reato si sia estinto per causa diversa all’amnistia.
La letteratura, pur prendendo atto delle innovazioni dovute alla previsione di una responsabilità da reato delle persone giuridiche, si focalizza sulle lacune della normativa in oggetto, dovute non solo al fisiologico bisogno di aggiornamento, ma anche alla sua originaria incompletezza.
In primo luogo, si auspicano misure e sanzioni più efficaci e una disciplina maggiormente determinata, che consenta alle imprese di orientarsi nell’elaborazione dei modelli organizzativi attraverso un calcolo più accurato che consenta di evitare possibili rischi penali.
La prescrizione di modelli organizzativi più precisi comporterebbe una maggiore effettività della tutela penale e risponderebbe all’interesse stesso delle imprese a svolgere serenamente la propria attività, nel rispetto del principio di libera iniziativa economica privata e del diritto di difesa.
Manca nel decreto, in definitiva, una norma omologa a quella che è contenuta all’art. 30 d.lgs. 81/2008, per cui il Modello di Organizzazione e di Gestione, avente efficacia esimente della responsabilità amministrativa, deve essere adottato ed efficacemente attuato, assicurando un sistema aziendale per l’adempimento degli obblighi giuridici del comma 1.
Analogamente, il modello organizzativo e gestionale deve prevedere idonei sistemi di registrazione delle attività di cui sopra, nonché, per quanto richiesto dalla natura dell’organizzazione, un’articolazione di funzioni che assicuri le competenze tecniche e i poteri di la verifica, valutazione e controllo del rischio, e un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello; deve prevedere altresì un idoneo sistema di controllo sull’attuazione del medesimo modello e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità delle misure adottate.
Analogamente, nessuna previsione analoga all’art. 16, comma 3, T.U.S., è stata inserita con riferimento alla delega di funzioni, istituto applicabile anche in campo ambientale, secondo la giurisprudenza di legittimità. La mancanza di una tale norma esclude che, per i reati ambientali inseriti nel catalogo dei reati presupposto, l’obbligo di vigilanza dell’imprenditore sul corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite possa intendersi assolto in caso di adozione ed efficace attuazione del modello di verifica e controllo di cui all’articolo 30, comma 4, operando tale presunzione solo per le violazioni in materia antinfortunistica e non anche per quelle ambientali.
Un risultato utile potrebbe essere perseguito mediante l’introduzione di una norma che, come l’art. 590-sexies c.p., sancisca l’idoneità dei modelli organizzativi esemplati sulle bestpractices e sulle linee guida di settore stabilite, anche a livello internazionale, al momento della commissione del reato presupposto.
Non si tratterebbe di fissare un contenuto necessario dei Modelli organizzativi, obiettivamente irrealizzabile, ma di precisarne il parametro di valutazione.
Questa norma consentirebbe di riaffermare il carattere normativo della colpa di organizzazione e di ribadire che il sindacato giudiziale sui modelli organizzativi deve essere condotto alla stregua di parametri cautelari preesistenti rispetto alla adozione della condotta, al riparo da soggettivismi del giudice.
Uno strumento utilizzabile nella predisposizione del modello, sembra, peraltro, essere presente nell’art. 6 del decreto, per cui i modelli possono essere adottati sulla base dei codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti.
Ciò rappresenta un riferimento ulteriore per le imprese rispetto al decreto, alla giurisprudenza ed alle linee guida approvate da Confindustria.
Tali codici costituiscono le Linee Guida che mirano a fornire indicazioni su come realizzare tali modelli per specifici settori, non essendo proponibile la costruzione di casistiche da applicare direttamente alle singole realtà operative.
Altra parte della dottrina riflette sulla possibilità di rendere la responsabilità dell’ente universale e non necessariamente legata ad un elenco di reati presupposto, o di inserire nel catalogo reati direttamente attinenti all’attività di impresa, così da rendere il rischio di incorrere in sanzioni più determinato. In ogni caso, si sottolinea l’assenza di una vera cultura della prevenzione, essendo prevalsi finora atteggiamenti di negligenza e di sottovalutazione dei rischi, che hanno portato a ritardare i necessari interventi al verificarsi ex post di gravi disastri, piuttosto che a consolidare una pianificazione preventiva.
Si registra poi una certa incostanza applicativa del D.lgs 231, in relazione alla concorrenza processuale di altri strumenti e in considerazione del fatto che il simultaneus processus, imposto a carico della persona fisica per il reato e a carico dell’ente per l’illecito amministrativo, costituisce un aggravio per il sistema.
Se per ogni reato presupposto si procedesse sempre carico degli enti, l’apparato giudiziario non avrebbe risorse sufficienti e verrebbe pregiudicato anche il tempestivo perseguimento delle persone fisiche nel rispetto dei tempi di prescrizione. Un altro elemento di irrazionalità è costituito dall’assenza di strumenti di «diversion», di fuga dal processo per l’ente, così come previsti per la persona fisica.
Ciò pregiudica la possibilità di indirizzare positivamente l’attività delle imprese attraverso soluzioni negoziate, e comporta un appesantimento dell’intero sistema processuale penale. Pesano, in tal senso, sia l’attuale incertezza circa l’obbligatorietà dell’iscrizione della notizia di reato ex art. 55, che determina un’applicazione disomogenea del decreto sul territorio nazionale, sia l’impossibilità di un vero e proprio agreement tra pubblico ministero ed ente, non essendo prevista alcuna forma di negoziazione al di fuori del procedimento penale né la sospensione dello stesso per eventuale messa alla prova del soggetto collettivo.
Altra questione controversa riguarda la possibilità, finora esclusa dal nostro legislatore, di ottenere il risarcimento del danno con la costituzione di parte civile direttamente nei confronti dell’ente; sebbene la Corte di Giustizia abbia ritenuto questa scelta legittima, le esigenze di una tutela più effettiva per i danneggiati potrebbero portare ad una svolta, peraltro incoraggiata da una parte della giurisprudenza, che ha ritenuto che possa derivare un danno risarcibile per fatto proprio dell’Ente a norma dell’Art. 185 c.p., come richiamato dall’Art. 74 c.p.p.
Nella specie, si sottolinea come il rinvio operato dagli artt. 34 e 35 del D. Lgs. 231/2001 consente l’estensione al procedimento degli illeciti amministrativi dipendenti da reato delle norme di procedura penale in quanto compatibili e l’estensione all’ente della disciplina relativa all’imputato, sempre in quanto compatibile.
In ossequio ad un argomento letterale, quando il legislatore ha inteso discostarsi dalle disposizioni del codice di rito, lo ha espressamente affermato, e nessuna norma del decreto vieta espressamente la costituzione di parte civile nei confronti dell’ente. Ancora, la stessa relazione illustrativa non contiene alcuna indicazione relativa alla inammissibilità della costituzione di parte civile.
Infine, da un punto di vista sistematico, data la stretta connessione tra reato e responsabilità amministrativa, con riferimento ai criteri d’imputazione oggettiva dei reati all’ente che nei reati colposi d’evento, vanno di necessità riferiti alla condotta e non all’evento, non può escludersi che dalla colpa di organizzazione, possa derivare un danno risarcibile per fatto proprio dell’ente, che lo obbliga, a norma dell’Art. 185 c.p., come richiamato dall’art. 74 c.p.p.
Ancora, a testimoniare la rapida evoluzione della materia de qua, la giurisprudenza di legittimità ha recentemente affrontato il tema dell’applicabilità del D.lgs 231/2001 anche alle società con sede legale all’estero, affermando in senso innovativo che l’art. 1 del decreto, nel definire l’ambito della disciplina, non prevede alcuna distinzione tra enti aventi sede in Italia e quelli con sede all’estero e che l’ente risponde della propria condotta a prescindere dalla sua nazionalità o dal luogo della sede principale, qualora il reato-presupposto sia stato commesso sul territorio nazionale.
Al di là del nomen iuris, la responsabilità degli enti rivela una evidente afflittività propria della materia penale, configurando un adattamento delle categorie tradizionali ad un peculiare fenomeno criminale. Il carattere sostanzialmente penale della normativa emerge prepotentemente anche nella materia cautelare, ove il parallelismo de facto tra cautela e sanzione accentua la necessità di assicurare all’ente imputato tutte le garanzie difensive previste dai principi costituzionali e convenzionali. In altri termini, l’intero settore della responsabilità amministrativa da reato deve essere ricondotto alla nozione sostanziale di matière pénale propria del diritto Cedu, sia ai fini delle sanzioni sia dell’estensione delle garanzie proprie del diritto all’equo processo di cui all’art. 6 Cedu.
La necessità di strumenti negoziali: i Deferred prosecution agreement
Nonostante le evidenti differenze rispetto alla tradizione di common law, il contrasto ai corporate crimes, come si evincerà più chiaramente dall’analisi delle fonti internazionali, non è un problema di etichetta, ma di effettività della tutela in concreto. Come si vedrà, è indispensabile pervenire ad una maggiore armonizzazione degli ordinamenti.
Ciò detto, come sottolineato da parte della dottrina, tra gli aspetti positivi del modello angloamericano che potrebbero esportarsi con successo nell’ordinamento italiano si annoverano, in particolare, i cc.dd. Deferred prosecution agreements, strumenti di giustizia riparativa che favoriscono l’eliminazione delle conseguenze del reato e una rapida uscita dal processo per l’ente. Questa soluzione è auspicabile anche per rimediare alla cronica crisi applicativa del D.lgs. 231/2001.
Infatti, il contrasto alla criminalità economica d’impresa mette in crisi il rapporto di stretta consequenzialità tra reato, processo, ed esecuzione della pena. Occorre tenere conto della difficoltà di accertare celermente le responsabilità dell’ente, e le pesanti conseguenze che la condanna comporta per le attività economiche.
Da qui la necessità di ricorrere a strumenti alternativi a carattere negoziale e premiale, pur se sempre con l’obiettivo di orientare in senso virtuoso la politica aziendale, attraverso obblighi di collaborazione con l’accusa e di sviluppare programmi di riorganizzazione che riducano il rischio di recidiva e raggiungano gli standard richiesti.
Il Regno Unito, così come fatto in passato dagli Stati Uniti, ha istituito i deferred prosecution agreements con il Crime and Courts Act del 2013.
I DPA configurano istituti negoziali applicabili nei procedimenti relativi alla responsabilità delle persone giuridiche. Tra i reati per cui è ammesso il DPA vi sono la truffa, la corruzione, frode, riciclaggio, evasione fiscale, contemplati all’elenco di cui alla section 45 del Crime and Court Act, comprendente anche il reato di evasione fiscale, aggiunto con il Criminal Finances Act del 2017.
L’elenco comprende reati di common law e statutory offences. Con il Policing and Crime Act 2017, sono state poi ampliate le fattispecie di reato per cui si ammettono i DPAs.
Infine, il Criminal Finances Act 2017 ha introdotto due nuove ipotesi di reato attribuibili alle persone giuridiche che possono essere risolte con il DPA, come l’omissione nel prevenire la commissione del reato di evasione fiscale.
Il modello anglosassone si ispira chiaramente ai deferred prosecution agreements già sperimentati negli Stati Uniti. In tal senso, il prosecutor presenta un’accusa a carico dell’ente, ma decide di rinviare l’esercizio dell’azione penale, in modo da evitare il processo adempiendo ad alcuni obblighi, previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria.
Non è stato, invece, introdotto nel Regno Unito il non prosecution agreement, il quale prevede che l’accusa decida di non instaurare il procedimento penale a carico dell’ente, subordinatamente al rispetto di alcune prescrizioni, senza alcun intervento del giudice.
Rispetto all’istituto americano, gli agreements del sistema inglese prevedono un maggiore intervento del giudice già nella fase di negoziazione.
Il Crime and Courts Act del 2013, alla section 45, istituisce le fasi della negoziazione, approvazione ed esecuzione.
La prima ha come parti necessarie il prosecutor e la persona giuridica, escluse le persone fisiche, come le vittime del reato. Gli interessi di questi soggetti saranno valutati quando l’accusa, nel decidere per l’azione penale o per la diversion, dovrà valutare l’entità del danno loro causato, ovvero la circostanza che l’ente abbia risarcito le persone offese.
In ogni caso, laddove ritenuta adeguata, la misura del risarcimento deve precedere il pagamento della pena pecuniaria. L’ente non ha un diritto ad essere invitato ai negoziati, in quanto rientra nella discrezionalità dell’accusa avviare le negoziazioni, che hanno natura consensuale.
Il Code of Practice indica due criteri di cui il prosecutor deve tenere conto. Il primo, endoprocessuale, riguarda il livello di prova raggiunto, richiedendosi il ragionevole sospetto di commissione del reato e che la prosecuzione dell’investigazione apporti ulteriori elementi di prova per ottenere una condanna. Il secondo elemento è esterno al processo e concerne l’interesse pubblico, facendosi riferimento non solo alla serietà dell’offesa ed all’entità del profitto, ma anche al rischio di danno per la collettività, i dipendenti, i mercati finanziari.
L’accusa deciderà quali fattori sono da considerarsi rilevanti secondo una valutazione caso per caso, fermo restando il successivo intervento del giudice. Il DPA deve contenere una rappresentazione dei fatti oggetto di contestazione, e una possibile, ma non obbligatoria, ammissione di responsabilità. Questa dichiarazione deve contenere particolari su ogni reato, inclusi documenti relativi a ricavi o perdite.
Lo statement è poi soggetto alla negoziazione tra le parti. Un elemento essenziale è il termine di efficacia dell’accordo, che può essere fissato in un periodo che va dai tre ai cinque anni, in relazione al contenuto ed alla complessità degli obblighi previsti.
Il nucleo del DPA sono le condizioni imposte all’ente, che variano in relazione al caso concreto. Come è evidente, l’istituto si caratterizza per una notevole flessibilità. Tra le condizioni di natura economica, è contemplato il pagamento di una pena pecuniaria, parametrato alla pena che sarebbe stata inflitta per il reato in caso di condanna; la stessa può essere ridotta in caso di ammissione di responsabilità e tenuto conto di tutte le circostanze.
Tra le altre condizioni richieste ai fini della riparazione delle conseguenze del reato, vi sono il risarcimento del danno alle vittime, la restituzione del profitto ottenuto e il pagamento delle spese del procedimento.
Inoltre, per eliminare il rischio di recidiva, può richiedersi alla persona giuridica l’implementazione di un programma di compliance, ovvero di apportare dei cambiamenti alle politiche societarie e cooperare nelle indagini.
Una volta deciso di negoziare, il prosecutor deve rivolgersi alla Crown Court, a cui spetta valutare, nel corso di un’udienza in camera di consiglio, con la partecipazione dell’accusa e dell’ente, se il negoziato risponda all’interesse della giustizia e che i termini dell’accordo siano fair, reasonable and proportionate. A differenza della valutazione del prosecutor rispetto all’interesse pubblico, guidata dai criteri del Code of Practice, nulla è disposto quanto alla competenza del giudice nella fase di consultazione.
La giurisprudenza ha affermato che la clausola relativa all’interesse della giustizia, tra gli elementi di rilievo, deve tenere conto, anzitutto, della serietà del reato. Più grave è la condotta, minore dovrebbe essere l’interesse a concludere un accordo.
Peraltro, questo criterio è stato temperato, nella sua rigidità, da una recente pronuncia, che ha privilegiato il nuovo assetto societario, unitamente alla condotta collaborativa tenuta dalla persona giuridica durante la fase delle indagini. Tra gli altri elementi, è importante incentivare la denuncia delle condotte illecite e l’adozione da parte dell’ente di misure volte a ricondurlo entro i binari della liceità.
Occorre ulteriormente tenere in considerazione l’impatto del procedimento penale sui dipendenti e sulle altre vittime.
A tal uopo, la direttiva 2014/23 dell’Unione Europea e il Regolamento 205/102 sui contratti pubblici prevedono l’automatica esclusione della società, per effetto di sentenze di condanna. Sul piano applicativo, sebbene inizialmente si escludesse che la Corte potesse impartire direttive alle parti sui contenuti della negoziazione, se non dopo averne negato l’approvazione, di fatto spesso i giudici aggiornano l’udienza chiedendo alle parti l’integrazione delle informazioni, intervenendo quindi attivamente.
Questa fase è caratterizzata dalla segretezza, in quanto le parti devono potere discutere liberamente senza il rischio di divulgazioni di notizie sui negoziati. Raggiunto l’accordo, il prosecutor chiede alla Crown Court di approvare il DPA. Quest’ultima, all’esito di un’udienza in camera di consiglio, dovrà valutare che l’accordo risponda all’interesse della giustizia e che sia fair, reasonable and proportionate.
Peraltro, in caso di approvazione, le motivazioni addotte a sostegno del DPA devono essere rese pubbliche, al fine di garantire la trasparenza della procedura. Nella fase di esecuzione dell’accordo, la Corte gioca un ruolo altrettanto significativo, nella valutazione circa possibili violazioni delle condizioni pattuite. In una tale ipotesi, può invitare le parti a concordare alcuni rimedi per la violazione ovvero a risolvere l’accordo, in modo che l’accusa avvii il procedimento penale. In generale, a fronte di sopravvenienze non previste al momento della stipulazione, l’istituto consente delle modifiche dell’accordo in fase di esecuzione, ferma la verifica del giudice sull’adeguatezza delle nuove condizioni. In caso di adempimento dell’accordo, il prosecutor non esercita l’azione penale e ne dà comunicazione alla Corte.
Sarà precluso un secondo procedimento per lo stesso reato, salvo che la persona giuridica abbia fornito informazioni incomplete o ingannevoli, ovvero fosse consapevole dell’erroneità dei dati forniti. Un’altra questione relativa all’introduzione dei DPA, riguarda gli effetti della mancata approvazione dell’accordo da parte dell’autorità giudiziaria. Il rischio è che l’ente possa evitare di ammettere le proprie responsabilità o di rivelare le informazioni a proprio carico durante le negoziazioni.
Secondo il Code of Practice, il prosecutor, una volta che l’ente ha prestato adesione ai negoziati, deve informarlo con una lettera della possibilità di utilizzo della documentazione ottenuta. Se viene avviato un procedimento penale, successivamente all’approvazione di un DPA, a seguito di una violazione dello stesso, lo statement of facts ivi contenuto viene considerato una formale ammissione di responsabilità, come una prova dei fatti dichiarati.
Secondo la dottrina questa disposizione è pregiudizievole per la persona-giuridica, in quanto meglio sarebbe stato considerare tale dichiarazione come una confessione, che lascia spazio all’ente per fornire la prova della sua non veridicità. Per rimediare all’eccessivo rigore della norma, si è suggerito di applicare la sezione 10 del Court and Justice Act del 1967, secondo cui, dietro autorizzazione della Corte, è possibile ritirare l’ammissione, consentendosi all’ente di ritrattare.
Nell’ipotesi in cui, invece, la Corte non abbia approvato l’accordo, tutti i documenti relativi alla trattativa potranno essere utilizzati nel procedimento a carico dell’ente per le dichiarazioni mendaci o incomplete, ovvero per contraddire quanto da essa dichiarato in altri procedimenti. Come sostenuto da alcuni studiosi, questi materiali dovrebbero essere utilizzati nel corso della cross-examination, e non come elemento dell’accusa, in modo da vietarne l’utilizzo per fini diversi.
In ogni caso, è sempre necessario il vaglio della Corte, come affermato dalla section 78 del Police and Criminal Evidence Act del 1984.
Il primo DPA è stato approvato il 30 novembre 2015, ed ha riguardato un caso di omessa prevenzione della corruzione, previsto dal Bribery Act del 2010.
Diversi altri accordi sono stati conclusi nel Regno Unito, e può quindi parlarsi di un istituto di applicazione generale.
Tra le possibili innovazioni, de iure condendo, vi è quella di importare in toto il modello sperimentato positivamente negli Stati Uniti, comprendente i NPA. In questo caso, l’accordo ha ad oggetto la non instaurazione del procedimento contro la società, con l’impegno di questa di ripristinare la legalità ed un più evidente effetto deflattivo.
In generale, la giustizia riparativa, in luogo di una prospettiva meramente retributiva, consente di tutelare più efficacemente gli interessi lesi, indirizzando da subito in senso virtuoso la politica aziendale e obbligando al ristoro delle vittime ed al ripristino, laddove possibile, degli ecosistemi violati.
Inoltre, attraverso soluzioni concordate, come la non applicazione o la riduzione delle sanzioni, si può al contempo salvaguardare l’interesse dell’impresa e dei lavoratori, beni anch’essi costituzionalmente rilevanti.
La giustizia riparativa e le disposizioni del D.lgs. 231/2001 a carattere riparatorio
La giustizia riparativa, in ragione della sua dimensione multidisciplinare, coinvolge non solo il sapere giuridico, ma anche la criminologia, la sociologia, l’antropologia e la psicologia.
Configuratosi inizialmente come nuovo approccio per affrontare il conflitto generato dalla commissione di reato, questo paradigma si è consolidato in altri ambiti del vivere comune come una vera e propria cultura riparativa nella gestione dei conflitti.
La giustizia riparativa è definita come un modello alternativo di giustizia penale che «coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di una soluzione che promuova la riparazione, la riconciliazione e il senso di sicurezza collettivo».
Essa incentiva infatti l’instaurazione di un dialogo fra i soggetti coinvolti, per esporre le ripercussioni del fatto sul tessuto sociale, inducendo spesso i consociati a mutare comportamenti.
La comunità colpita dal reato può inoltre dettare le condizioni per la riparazione dei danni subiti e svolgere così un ruolo primario nell’amministrazione della giustizia, ottenendo quelle risposte di cui rimarrebbe priva, se fosse «spossessata dei propri atti e deresponsabilizzata rispetto alle conseguenze degli atti altrui», allorché venga meno il sistema penale.
In questo schema dialogico, anche il reo diviene coprotagonista nella gestione del conflitto in quanto non vi può essere alcun riconoscimento dei soggetti coinvolti dal reato, né delle conseguenze dannose da essi subite, se egli non intraprende un percorso volto all’assunzione di responsabilità rispetto al proprio comportamento.
Tale percorso, stimolato dal confronto con le vittime e con la comunità, conduce al superamento della «logica della negazione sistematica» della sofferenza derivante dal reato, favorendo nel reo un ripensamento critico della propria condotta e la volontà di adoperarsi per riparare, materialmente o simbolicamente, il danno causato.
Il paradigma riparativo, esaltando il principio rieducativo della pena, si pone come modello di giustizia in grado di soddisfare le logiche della prevenzione generale e speciale, dalle quali peraltro si discosta.
Grazie alla capacità di favorire l’autocritica da parte del reo e la sua libera scelta di abbracciare modelli comportamentali rispettosi delle norme violate, la giustizia riparativa si dimostra in grado, da un lato, di neutralizzare il rischio di recidiva e, dall’altro, di promuovere nella comunità la riaffermazione del valore della norma violata.
Essa favorisce inoltre la “closure” della vittima che, ottenendo giustizia, può finalmente voltare pagina. In definitiva, la giustizia riparativa riporta l’attenzione sulla tipicità del reato e sul senso della pena. Quanto alla prima prospettiva, essa impone di riflettere sulla natura delle condotte antigiuridiche, sull’opportunità di strumenti premiali o estintivi del reato legati a condotte riparatorie, collegate o meno ad un percorso di mediazione.
Quanto alla seconda prospettiva, la giustizia riparativa impone di riconsiderare i criteri finalistici delle sanzioni, le ragioni che sorreggono, in alcuni casi, la rinuncia alla pena, e di valutare la prassi della sospensione condizionale della pena ex art. 163, comma 4 c.p.; infine, porta ad approfondire le linee-guida del potere discrezionale del giudice nella valutazione della condotta successiva al reato. La giustizia riparativa porta, dunque, a ripensare funditus la finalità della pena.
Nell’ambito descritto, viene posto al centro il superamento della stigmatizzazione portata dalla pena attraverso percorsi di reintegrazione sociale, basati su condotte riparatorie preventivamente negoziate. La mediazione penale si pone, infatti, come risorsa per gestire il conflitto e per tentare di ricucire, laddove possibile, la frattura nei rapporti sociali conseguente ad un reato.
Essa non si pone come una riconversione del diritto penale in una controversia privata, ma come mezzo per restituire ad esso il suo fine ultimo, di riconoscimento della dignità umana e di stabilizzazione sociale.
Infine, la restorative justice richiama ad un confronto, anche in termini di costi/benefici, tra litigation e mediation, e più in generale tra i costi individuali, sociali ed economici del processo, da un parte, e quelli della riparazione, dall’altra.
Studi di origine anglosassone hanno riscontrato che il livello di soddisfazione della vittima che partecipa alla mediazione o al conferencing raggiunge l’80%, laddove la percentuale di soddisfazione ricevuta dalle vittime grazie al processo non supera il 40%. Con riguardo, invece, ai dati sulla recidiva, le risultanze di interesse sono differenti a seconda della tipologia di reato commesso. Per i reati di violenza, i percorsi di giustizia riparativa determinano una contrazione molto elevata della recidiva con una diminuzione pari a circa l’80%.
Per i reati contro il patrimonio, invece, la diminuzione della recidiva è più contenuta. Non è stata osservata alcuna riduzione della recidiva, invece, per gli autori di reati senza vittima, come la guida in stato di ebbrezza.
Pertanto, il tasso di recidiva si riduce sensibilmente quando è possibile una mediazione tra autore del reato e vittima. Gli stessi studi dimostrano poi che per le vittime è, altresì, importante ricevere delle scuse formali.
Coloro che partecipano ai programmi di giustizia riparativa ricevono scuse nel 72% dei casi, mentre coloro che partecipano al processo ordinario, ricevono delle scuse solo nel 19% dei casi. Segnatamente, è stato rilevato come la maggiore efficacia di questo sistema per i reati violenti è la possibilità di un confronto face to face tra la vittima e l’autore del reato, con un maggior coinvolgimento emotivo, in grado di muovere verso il cambiamento.
Anche in ambito europeo alcuni progetti di ricerca confermano le evidenze degli studi anglosassoni. Tra questi, si segnala il progetto “Desistance and Restorative Justice: mechanisms for desisting from crime within restorative justice practices”, pubblicato nel 2015, i cui risultati evidenziano una riduzione del tasso di recidiva e della criminalità.
Spazi di riflessione sono sollecitati dalla giustizia riparativa anche per quanto riguarda la gestione della criminalità delle imprese: si pensi alle questioni teorico-pratiche legate alla praticabilità della mediazione quando una delle parti sia una persona giuridica e alla natura delle condotte riparatorie atte a paralizzare l’applicazione delle misure interdittive per gli enti.
La giustizia riparativa muove dalla centralità della vittima e dall’idea di riparazione, restituendo centralità alla riflessione sulla dimensione del danno per collegare ad esso il senso della riparazione (materiale o simbolica). Sul punto, il D.lgs. 231/2001 incentiva gli enti alla prevenzione e neutralizzazione del rischio di reato, e favorisce un ritorno alla legalità mediante l’adozione di modelli organizzativi remediali e di condotte riparative.
Il D.lgs. 231 offre, infatti, all’ente molteplici opportunità di risarcire il danno, riparare le conseguenze del reato e riorganizzarsi secondo schemi di legalità.
In particolare, ai sensi dell’art. 11, l’attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti viene valorizzata a beneficio dell’ente in sede di commisurazione della sanzione pecuniaria. In secondo luogo, dispone l’art. 12 che l’ente può beneficiare di una riduzione della sanzione pecuniaria se si attiva tempestivamente dopo il fatto per risarcire il danno ed eliminarne le conseguenze dannose o pericolose o comunque adoperarsi efficacemente in tal senso, ovvero per adottare e rendere operativo un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
Inoltre, l’ente può evitare l’applicazione di una sanzione interdittiva se si attiva tempestivamente dopo il reato per realizzare cumulativamente un risarcimento integrale del danno ed una eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose o comunque adoperandosi efficacemente in tal senso, e l’eliminazione delle carenze organizzative che hanno determinato il reato, mettendo a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca.
Ancora, ex art. 65, prima dell’apertura del dibattimento, l’ente può ottenere la sospensione del processo se chiede di provvedere alle attività citate e dimostra di essere stato nell’impossibilità di effettuarle prima, versando una cauzione determinata dal giudice; se chiede di poter realizzare tali adempimenti, l’ente può ottenere la sospensione dell’eventuale sanzione interdittiva già cautelarmente applicatagli, versando una cauzione.
In caso positivo, l’ente può ottenere la revoca dell’eventuale sanzione interdittiva già applicata. Se, invece, ha realizzato tardivamente tali adempimenti, esso può aspirare, anche in fase esecutiva, alla conversione in sanzione pecuniaria della sanzione interdittiva alla quale dovesse essere stato condannato, facendo istanza di conversione entro venti giorni dalla notifica dell’estratto della sentenza.
Infine, nessuna forma di riparazione consente di evitare la confisca del prezzo o del profitto del reato.
Secondo parte della dottrina, la stessa Relazione al decreto, nei punti in cui valorizza la positiva attivazione a favore dei beni giuridici in precedenza lesi, adotta una prospettiva non dissimile a quella della Restorative Justice.
La sezione §5.2 della Relazione, dedicata ai casi di riduzione della sanzione pecuniaria, manifesta la “esigenza che la condotta riparatoria, come condotta antagonistica rispetto all’offesa, avvenga entro un lasso di tempo che, seppure non immediatamente prossimo alla commissione del fatto, non risulti troppo diluito nel tempo così da vanificare il valore insito nella tempestiva e riconoscibile attività di operosa resipiscenza meritevole di sanzione positiva” e precisa che le attività riparatorie “debbono abbracciare non solo il risarcimento del danno ma anche le conseguenze dannose o pericolose del reato”.
La sezione §6 evidenzia come anche “la disciplina predisposta per le sanzioni interdittive si connota in termini spiccatamente special-preventivi, [proponendo] un modello sanzionatorio che àncora la minaccia a presupposti applicativi particolarmente rigorosi funzionali al conseguimento di utili risultati per la tutela dei beni tutelati, visto che si consente all’ente di attivarsi, attraverso condotte riparatorie, per evitare l’applicazione di queste sanzioni (…); si profila, dunque, una linea di politica sanzionatoria che non mira a una punizione indiscriminata e indefettibile, ma che, per contro, punta dichiaratamente a privilegiare una dimensione che salvaguardi la prevenzione del rischio di commissione di reati in uno con la necessaria, previa eliminazione delle conseguenze prodotte dall’illecito”. Infine, al §6.1 si legge che “l’articolo 17 individua le condotte di riparazione delle conseguenze del reato che permettono all’ente di evitare l’applicazione delle sanzioni interdittive temporanee.
La norma – lo si è anticipato – trasuda chiare finalità special-preventive, accordando un premio all’ente che pone in essere un comportamento che integra un ‘controvalore’ rispetto all’offesa realizzata. Comportamento successivo all’illecito e da tenere prima dell’apertura del giudizio, che attenua il bisogno di pena, e che, in particolare, contro-agisce rispetto ai presupposti applicativi delle sanzioni interdittive, annullando la loro carica di disvalore (…). In definitiva, le contro-azioni di natura reintegrativa, riparatoria e ri-organizzativa sono orientate alla tutela degli interessi offesi dall’illecito e, pertanto, la rielaborazione del conflitto sociale sotteso all’illecito e al reato avviene non solo attraverso una logica di stampo repressivo ma anche, e soprattutto, con la valorizzazione di modelli compensativi dell’offesa. Il favore che viene ricollegato alla tenuta di queste condotte è altresì corroborato dalla circostanza, particolarmente significativa, che, anche se vengono tenute oltre il termine previsto o in seguito alle vicende modificative dell’ente, esse danno luogo alla conversione della sanzione interdittiva in sanzione pecuniaria”.
Il D.lgs. 231/2001 ha quindi promosso un rovesciamento di prospettiva, per molti versi affine a quello proposto dalla Restorative Justice, scommettendo su un progetto di prevenzione orientato non alla punizione, bensì alla compliance. L’irrogazione della sanzione rappresenta l’extrema ratio del sistema 231, il quale, anche a fronte della commissione di un reato, persegue primariamente l’implementazione di misure di organizzazione e controllo.
Il decreto, infatti, propone istituti a carattere propriamente riparativo, focalizzandosi sul rapporto tra autore del reato e vittima e non già sul rapporto tra il reo ed il sistema giudiziario; dall’altro lato, la riparazione, essendo prevista congiuntamente al risarcimento, può andare oltre i soli danneggiati in maniera immediata e diretta, fino a comprendere la comunità danneggiata. Il nostro ordinamento differisce poi dalle citate forme di giustizia negoziata dei sistemi angloamericani, che spesso presuppongono l’auto-denuncia da parte della società e implicano il mancato esercizio dell’azione penale qualora la società cooperi ala ricostruzione del fatto e all’individuazione dei responsabili.
Il D.lgs. 231/2001, infatti, non prevede benefici per l’auto-denuncia o la collaborazione alle indagini, ma premia la gestione e riparazione delle conseguenze del reato, attraverso l’esclusione delle sanzioni interdittive e la riduzione della sanzione pecuniaria. I maggiori spazi di giustizia riparativa sono offerti dagli artt. 12 e 17, che chiedono all’ente di risarcire integralmente il danno ed eliminare le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero adoperarsi comunque efficacemente in tal senso, aprendo all’attivazione di programmi che vedano l’ente, le vittime e la comunità partecipare insieme attivamente alla risoluzione delle questioni sorte dal reato.
Gli studiosi hanno rilevato peraltro che le persone offese e la comunità di riferimento potrebbero fornire all’ente un utile apporto conoscitivo anche ai fini dell’analisi del rischio concretizzatosi e dell’individuazione delle opportune attività c.d. conformative, consistenti in impegni comportamentali volti alla prevenzione di ulteriori illeciti e alla correzione dei fattori organizzativi che hanno contribuito alla causazione dell’evento lesivo o pericoloso. In ogni caso l’adoperarsi efficacemente per l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato è la disposizione maggiormente riconducibile alla giustizia riparativa, intesa dalla dottrina come un’attività del reo a favore del bene leso, la quale, rispetto alle sue possibilità concrete, il riconoscimento della condotta antigiuridica tenuta e la disponibilità per il futuro a rispettare quel bene. In questi termini, pertanto, la riparazione è sempre praticabile, in quanto parametrata alle condizioni soggettive dell’autore e non coincide con il risarcimento del danno, né con l’eliminazione oggettiva di tutte le conseguenze del reato.
La considerazione delle indicazioni delle vittime e delle collettività colpite può consentire all’ente di provare di essersi adoperato efficacemente in senso virtuoso, pur quando non è possibile eliminare ogni pregiudizio connesso al reato. Esempio paradigmatico dell’efficacia che la giustizia riparativa può dispiegare nell’ambito del crimine d’impresa sono i reati ambientali, dove è prevalente l’esigenza di ripristinare, ove possibile, il bene giuridico leso e determinare un cambiamento dei modelli di produzione, prima ancora che individuare i responsabili del reato.
Da una serie di studi condotti all’estero è infatti emerso che il ricorso a programmi di riparazione in relazione a tale categoria di reati ha avuto un’efficacia c.d. trasformativa per i soggetti coinvolti. Da un lato, essa consente alle vittime e alle comunità di prendere parte alla risoluzione del conflitto, all’individuazione dei danni e alla ricerca delle modalità di riparazione più adatte, promuovendo la partecipazione democratica ai processi decisionali in campo ambientale e orientando verso una riparazione del danno a livello sostanziale.
Si riscontra inoltre una responsabilizzazione dei colpevoli, specie per i cc.dd. white collars perché, grazie all’incontro con la vittima e con la comunità il cui ambiente è stato danneggiato, “the humanity of the Restorative Justice process pierces the corporate veil”.
Tra i progetti più innovativi, vanno menzionati i Community Environmental Justice Forums (CEJFs), promossi dal Ministero dell’Ambiente canadese, che indirizzano le aziende caratterizzate da modelli organizzativi inadeguati, con l’eccezione dei casi di offese gravi, intenzionali e reiterate, verso l’individuazione consensuale, insieme alle vittime ed alla comunità, delle misure riparatorie più adatte.
Gli istituti di diversion possono essere considerati l’ultimo approdo del processo evolutivo della regolamentazione giuridica delle imprese verso una giustizia non imposta “dall’alto” attraverso sanzioni, ma attuata attraverso un modello di cooperazione pubblico-privato basato sulla concorde iniziativa delle parti.
Negli ordinamenti europei, si osserva oggi una convergenza degli istituti processuali; se i sistemi caratterizzati dalla doverosità dell’azione penale si aprono a forme di giustizia negoziata, quelli tradizionalmente fedeli al principio di opportunità tendono più a vincolare l’azione del Pubblico Ministero mediante direttive governative.
Nell’esperienza italiana, una norma significativa, insieme alle altre già citate nel decreto, è l’art. 58, che, in un ordinamento improntato al principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale, attribuisce margini di discrezionalità del Pubblico Ministero nell’archiviazione del procedimento nei confronti della persona giuridica.
Ciò detto, anche alla luce del differente ruolo istituzionale della Pubblica Accusa nei sistemi di common law ed in quelli di civil law, la previsione di strumenti di uscita dal processo per gli enti dovrebbe comportare una puntuale individuazione dei presupposti necessari nonché dell’oggetto della delibazione giudiziale. La dottrina rileva infatti che sono incompatibili con l’art. 112 Cost. esempi di diversion “semplice”, lasciate alla totale discrezionalità dell’accusa, non quelli di tipo “condizionato”. Inoltre, l’accordo di riabilitazione dovrebbe contenere solo misure riabilitative, restitutorie e risarcitorie, quale la messa a disposizione del profitto ai fini della confisca, qualora la misura ablativa non abbia natura punitiva bensì “ripristinatoria” dell’ordine economico; risulterebbe, invece, inammissibile rimettere all’accordo tra le parti la determinazione della sanzione pecuniaria. In definitiva, nonostante le chiare differenze, l’impostazione dei sistemi angloamericani rappresenta un riferimento cui guardare per la disciplina della responsabilità degli enti.
Il contrasto ai crimini delle imprese multinazionali: la configurabilità di una compliance su scala globale
La maggiore problematica in tema di responsabilità degli enti riguarda, peraltro, i danni provocati dalle imprese su scala transnazionale. Oggi assistiamo infatti ad una delocalizzazione dell’attività economica e di conseguenza ad una dimensione transnazionale del crimine organizzato. Le organizzazioni illecite ricercano sui mercati globali le migliori opportunità di arricchimento, selezionando quegli ordinamenti dove le violazioni ambientali e dei diritti umani sono meno severamente punite.
Pertanto, occorre garantire che non vi siano zone franche, al fine di evitare il rischio di forum shopping da parte di società in grado di contabilizzare e assorbire, sostanzialmente, le sanzioni. La questione in esame evidenzia uno sconfinamento dai confini propri del diritto penale, concepito tradizionalmente come un diritto nazionale.
Sotto tale profilo, le multinazionali sono in grado di trascendere i territori dei singoli Stati generando enormi effetti negativi per la salute umana e per l’ambiente. Nella specie, le principali violazioni dei diritti umani hanno riguardato i reati ambientali, il saccheggio delle risorse naturali, lo sfruttamento dei lavoratori nei paesi in via di sviluppo e la complicità nei genocidi commessi da regimi dittatoriali.
A queste fattispecie, si sono aggiunti reati di tipo economico come la frode fiscale transfrontaliera o il riciclaggio di denaro illecitamente accumulato. A fronte di questa estensione globale, il diritto penale risente del suo carattere nazionale. Se lo sviluppo dei regimi di responsabilità da reato delle società in tutti gli ordinamenti ha fornito una prima risposta, rimane il problema della disciplina applicabile a soggetti privati il cui fatturato annuo supera il prodotto interno lordo di uno Stato, che forniscono beni e servizi in tutti i continenti, con migliaia di lavoratori.
La dottrina ha allora valutato la possibilità di sviluppare un quadro globale di responsabilità per le multinazionali. Nonostante diversi studiosi invochino una responsabilità delle società per genocidio o altri crimini contro l’umanità, a livello internazionale non sono stati istituiti organi giurisdizionali dotati della competenza necessaria.
Ci si chiede perché rispetto a illeciti così estesi, che possono risolversi in serious violations of human rights, non sia emerso un potere sovranazionale di controllo, regolazione e sanzione. In primo luogo, si è posto il problema di un riconoscimento di una responsabilità da reato anche di fronte alla Corte Penale Internazionale.
Il principale ostacolo è rappresentato dall’Art. 25 dello Statuto, che afferma testualmente che la Corte é competente per le persone fisiche in conformità al presente Statuto; chiunque commette un reato sottoposto alla giurisdizione della Corte é individualmente responsabile e può essere punito secondo il presente Statuto.
La rubrica della disposizione parla espressamente di “responsabilità individuale”, chiudendo implicitamente ad un’assoggettabilità delle persone giuridiche alla giurisdizione della Corte. Tentativi in tal senso furono esperiti anche in sede di lavori preparatori della Conferenza di Roma, quando la delegazione francese presentò una proposta per includere la responsabilità delle corporations per i reati contro i diritti umani previsti dallo Statuto stesso, ferma la responsabilità a carico delle persone fisiche e a condizione che vi fosse un collegamento tra l’ente e gli autori del reato, che dovevano avere agito nell’interesse e in rappresentanza dell’ente, e nell’esercizio delle funzioni loro assegnate.
La proposta non ebbe seguito, e prevalse la volontà degli Stati di non includere le persone giuridiche nell’art. 25.
Più recentemente, la questione è stata riproposta da una parte della dottrina, che sostiene la responsabilità degli enti per alcune serious violations of human rights. Allo stesso modo, nessuna conseguenza è seguita agli studi sull’introduzione del reato di “ecocidio”, almeno per quanto riguarda l’instaurazione di una nuova autorità giudiziaria a livello internazionale. Allo stesso modo, i tentativi di istituire un potere sovranazionale di contrasto ai reati finanziari, come la Procura europea, non prevedono una responsabilità delle corporations.
Infatti, l’European public prosecutor office, che ha iniziato la sua attività nel 2020 in relazione ai reati lesivi degli interessi finanziari dell’Unione, radica sempre il suo potere punitivo nell’ambito degli Stati. Pertanto, il coinvolgimento delle imprese in gravi violazioni dei diritti umani è sostanzialmente giudicato a livello individuale, e il contrasto ai reati delle multinazionali si basa sugli ordinamenti nazionali.
Una ricostruzione minoritaria, per contro, sostiene un’ontologica incompatibilità tra i crimini contro l’umanità e le multinazionali. Nella specie, si rileva la perseguibilità delle persone fisiche che hanno materialmente agito e la natura strutturalmente dolosa dei serious crimes against human rights.
In definitiva, i due principali nodi sono rappresentati dalla mancanza di specifiche disposizioni sulla responsabilità delle multinazionali per le violazioni dei diritti umani e dalla difficoltà di declinare la compliance su scala globale.
Infatti, non è sufficiente un approccio meramente sanzionatorio, occorrendo altri strumenti per incentivare politiche aziendali virtuose. L’attività delle multinazionali impatta altresì negativamente sulle possibilità di sviluppo sostenibile di alcune aree del mondo: infatti, i dati mostrano che la maggior parte dei reati colpisce i paesi in via di sviluppo. Oggi il diritto internazionale contempla meccanismi non giudiziali, come Commissioni di inchiesta, riparazione e conciliazione, e organismi incaricate dall’Onu. Peraltro, gli obblighi del diritto internazionale si rivolgono solo agli Stati. Tra gli strumenti giudiziali veri e propri, oltre alla Corte Penale Internazionale, possono annoverarsi i comitati e le Corti ad hoc ed a composizone mista, lasciando per il resto spazio alle giurisdizioni nazionali. È evidente come l’attuale sistema non garantisca un’integrale tutela contro i gravi crimini d’impresa, come la distruzione degli ecosistemi o i crimini di guerra.
Come è stato sottolineato anche in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, mancano norme effettive sulla responsabilità delle multinazionali.
Un punto di partenza può essere rappresentato dal Malabo Protocol allo Statuto della Corte Africana di giustizia e dei diritti umani, che, pur essendo uno strumento a carattere regionale, è il primo ad istituire una giurisdizione sovranazionale sulle multinazionali.
La dottrina ha salutato con favore l’art. 46, che, prevedendo la responsabilità delle corporations per 14 diverse fattispecie di reato, riconosce che queste ultime rappresentano oggi degli attori globali.
Al primo profilo si aggiunge la complessità, data la connessione tra i regimi di responsabilità e i programmi aziendali, di costruire una compliance “globale” per le imprese transnazionali.
In altri termini, chiarita la necessità di perseguire le corporations per le gravi violazioni commesse, ci si chiede come le stesse dovrebbero orientarsi nell’elaborazione dei modelli organizzativi e nella prevenzione, su scala globale, dei reati.
La responsabilità da reato si correla infatti al riconoscimento di un potere autoregolativo degli enti. Si parla, infatti, di una cooperazione tra il potere pubblico e le aziende, sulla base di una “delega di autoregolamentazione” interna. Ciò detto, il vero e proprio “dilemma” delle società multinazionali è costituito dalla difficoltà di autoorganizzarsi rispetto ad una frammentazione dei sistemi normativi.
Come è stato efficacemente rilevato, “They act locally but they think globally”, sono, cioè, strette tra due alternative. Da un lato, per le grandi imprese vi è la possibilità di definire delle regole di compliance unitarie per ogni entità del gruppo. Se la società opera in decine di giurisdizioni, potrebbe essere più razionale stabilire un common standard of compliance.
Alla prospettiva unitaria si contrappone altra prospettiva frammentata, quella del local standard of compliance, dell’adeguamento di ogni componente del gruppo, ivi comprese le filiali o le partecipate. In tale prospettiva, diventa difficile fornire linee guida per le imprese e regole anche per il sindacato giurisdizionale.
Una prima indicazione deriva dalla definizione dei limiti esterni della compliance. La società deve provvedere alla propria organizzazione interna, valutando gli spazi consentiti dagli ordinamenti di riferimento. Il limite esterno sono due poli, da un canto la cosmetic compliance, di mera facciata o undercompliance, che comporta una semplificazione ai fini della massimizzazione dei profili organizzativi interni e della fluidità delle procedure, con una centralizzazione delle funzioni.
Questa prima impostazione rischia di essere uno sforzo insufficiente, che non può reggere alla verifica giudiziale. Il rischio opposto è quello della over compliance, ossia l’atteggiamento dell’impresa che opera in decine di paesi diversi e tenta irrealisticamente di soddisfare tutte le aspettative ordinamentali, con una sovrabbondanza di procedure di controllo. In quest’ipotesi, vi è il rischio che la dimensione autoorganizzativa generi una ridondanza di procedure, una moltiplicazione dei costi, a tutto svantaggio dell’efficienza aziendale.
Sotto tale profilo, occorre premettere che la compliance può raggiungere una nozione di adeguatezza tendenziale, ma mai un grado di prevenzione assoluta. Al contempo, essa risente di una dimensione necessariamente dinamica nel tempo. Con un maggiore impegno esplicativo, lo sforzo di adeguatezza dell’ente si colloca in un preciso ambito temporale, e ciò che in un dato momento è considerato compliant può successivamente divenire inadeguato, per esempio a fronte di un ampliamento dei reati presupposto o di un’evoluzione dei protocolli di sicurezza.
Affinché l’impresa possa determinarsi a livello di compliance dovrà effettuare una analisi comparativa delle normative, che diventa quanto mai difficile quando vi sono delle sedi all’estero.
La dottrina individua quattro elementi da considerare. In primo luogo, l’ente deve rispettare ordinamento della home country; in secondo luogo, si pone l’ordinamento della house country, dove vi è una o più parteciapte, e quello dei paesi terzi; infine, rilevano anche elementi di International law ed eventualmente di soft law. La prima componente ha a che vedere con l’ordinamento giuridico al quale appartiene la holding.
Nella prospettiva dell’impresa che opera in tante giurisdizioni, ma che ha la sede legale, per esempio, in Italia, ci si chiede se fare prevalere l’ordinamento italiano o declinare la compliance a seconda degli ordinamenti dove si opera.
La tragica scelta sta nell’esportare gli standard di compliance interni, oppure frammentare la compliance a seconda delle house country. La domanda principale è come possa auto-organizzarsi in modo significativo un ente che opera in tanti ordinamenti, nella prospettiva della compliance come presidio di prevenzione dei reati. Sul punto occorre superare la visione monistica, integrando le prospettive della local compliance e della global compliance.
Nella prospettiva di un’impresa multinazionale, vi sono tante coppie quante sono le giurisdizioni nelle quali opera. Un’impresa con sedi in 20 ordinamenti stranieri che ha la sede legale in Italia, si deve porre venti volte la domanda se fare prevalere compliance italiana o declinarla a seconda degli ordinamenti dove si opera. La tragica scelta è se esportare gli standard di compliance interni, la global compliance, correlata ad ord home country, oppure frammentare la compliance a seconda del numero delle house country.
Questa porta spesso all’individuazione di standard di controllo della home country, considerando che le host country sono spesso paesi in via di sviluppo. Peraltro, la tematica è più complessa, basti pensare alle subsidiaries collocate in paesi sviluppati per ragioni fiscali dove c’è uno standard più elevato.
Per quanto concerne gli organi di controllo, poi, ci si chiede se per le società controllate serva un organo apposito. Anche qui si ricorre sempre ad un’analisi di natura comparativa, di equivalenza funzionale; non è quindi necessario che vi sia un’identica prospettiva dei meccanismi di controllo, ma è necessario che con riferimento alle società estere si individuino organismi con garanzie analoghe agli ODV.
Ulteriori profili di complessità attengono poi alle cc.dd. third countries, dove non vi sono sedi, ma che tuttavia prevedono delle norme particolarmente restrittive e dotate di efficacia espansiva. Un esempio sono le disposizioni inglesi e americane sulla corruzione, che le imprese prendono in considerazione perchè ne temono l’applicazione extraterritoriale.
Infine, oggi proliferano in modo particolare meccanismi di soft law, come linee guida e codici di condotta: si pensi al codice di condotta dell’OCD, rivolto alle imprese. Occorre considerare la globalizzazione dell’economia, e il fatturato delle imprese che spesso è superiore agli Stati, con il rischio di forum shopping. L’attuale economia non ha globalizzato solo gli scambi commerciali, ma anche le organizzazioni produttive, con delle chains globali ed una parcellizzazione dei fornitori e dei produttori. Questi dati rendono problematico l’enforcement negli Stati nazionali. Il paradosso rilevato dalla dottrina è a fronte di una realtà transnazionale, non esiste una governance globale né un enforcement a livello politico. Nello scontro che vede oggi protagonisti gli Stati e le multinazionali, le chance di contenimento del crimine non possono più giocarsi localmente.
Le difficoltà di applicazione ultra-territoriale delle leggi penali e la necessità di una governance “integrata”
Come si è accennato, gli Stati cercano di rispondere alla natura transnazionale del crimine societario con un’applicazione altrettanto delocalizzata delle leggi penali.
In tal senso, le tecniche di estensione extraterritoriale delle giurisdizioni nazionali si dividono in criteri “genuini” e “nascosti”. I primi poggiano sul principio di difesa e sul principio di universalità; la giurisdizione extraterritoriale è sottoposta a dei limiti, alcuni tengono conto della nazionalità dell’ente, altri della sede dell’organizzazione.
Emergono quindi quattro modelli di applicazione della legge alla responsabilità degli enti nel caso di reati commessi all’estero. Il primo modello si basa sul criterio di nazionalità, ossia sul luogo della sede legale, il secondo guarda alla residenza effettiva dell’ente, ossia al centro di amministrazione o direzione.
Altri criteri valorizzano l’emissione di strumenti finanziari sul mercato nazionale. Una quarta impostazione considera, invece, l’attività operativa svolta almeno in parte da un ente nel paese. In tutte queste ipotesi, il comune denominatore è l’espansione della territorialità. In via esemplificativa, gli Stati Uniti avvicinano nella prassi la logica della territorialità al principio di universalità, utilizzando queste tecniche anche per promuovere politiche economiche protezionistiche.
Guardando, invece, alla sistematica del decreto 231/2001, può individuarsi nell’art. 4 la norma con funzioni di diritto punitivo transnazionale.
Sull’argomento, la giurisprudenza di legittimità ha recentemente fornito delle risposte innovative, che non hanno però fugato ogni dubbio in merito. In particolare, un importante arresto della sesta sezione della Corte di Cassazione si è soffermato sul tema dell’applicabilità del d.lgs. n. 231/2001 a società ed enti di diritto straniero, un aspetto sul quale il legislatore rimane silente.
In primo luogo, la Suprema Corte conferma l’applicabilità della normativa de qua agli enti di diritto straniero, in caso di reato presupposto commesso in territorio italiano. In secondo luogo, sembra enunciare un principio di portata generale comprensivo anche delle ipotesi di reato presupposto commesso all’estero, ma comunque attratto alla giurisdizione italiana ex art. 4 d.lgs. n. 231/2001. Innanzitutto, si premette che l’art. 1, comma 2 del decreto definisce il rispettivo ambito applicativo senza delineare alcuna distinzione fra enti con sede in Italia ed enti con sede all’estero.
Si precisa poi che le disposizioni in esame danno luogo ad una forma di responsabilità autonoma, ma derivata dal reato, dovendosi valutare la giurisdizione rispetto al reato-presupposto. Tale ultimo assunto trova inoltre conferma, secondo la Suprema Corte, nel disposto dell’art. che assoggetta alla disciplina de qua gli enti aventi la sede principale in Italia in relazione ai reati commessi all’estero per i quali sussista giurisdizione italiana, e sempre che non proceda già lo Stato nel cui territorio è stato commesso il fatto.
La sentenza sembra quindi dare una lettura rivoluzionaria dell’art. 4, per dimostrare come, al pari delle persone fisiche, anche gli enti possano andare soggetti alla giurisdizione italiana in caso di reati commessi all’estero, salvo il limite del bis in idem internazionale. In conformità al principio di uguaglianza, la Suprema Corte ritiene che le persone giuridiche non siano soggette ad una disciplina speciale rispetto a quella vigente per le persone fisiche sì da sfuggire ai principi di obbligatorietà e di territorialità della legge penale. Come l’art. 3 c.p. dispone che la legge penale italiana obbliga coloro che si trovino nel territorio italiano, a prescindere dalla loro nazionalità, salve le eccezioni di diritto pubblico ed internazionale, e l’art. 6, co. 1, c.p. dispone che il reato commesso nel territorio italiano è punito secondo la legge italiana, allo stesso modo un ente collettivo, abbia o meno la sede principale in Italia, deve andare soggetto alla normativa italiana nel caso in cui il reato presupposto sia commesso in territorio italiano.
Il principio di uguaglianza viene richiamato anche con riferimento alla libertà di stabilimento di cui agli artt. 49 e 54 TFUE. La Suprema Corte rileva che l’esclusione della responsabilità da reato per gli enti stranieri realizzerebbe un’indebita alterazione della libera concorrenza rispetto alle società di diritto italiano.
In conclusione, si afferma che la persona giuridica risponde dell’illecito amministrativo derivante da un reato-presupposto per il quale sussista la giurisdizione nazionale, in quanto è soggetta all’obbligo di osservare la legge italiana a prescindere dalla nazionalità o dal luogo della sede legale ed indipendentemente dall’esistenza o meno nel Paese di appartenenza di una disciplina analoga della medesima materia.
Le affermazioni della Cassazione ha destato perplessità in dottrina, in quanto aprono ad una lettura forse eccessivamente estensiva della disciplina della transnazionalità prevista nel decreto. Come affermato, l’unica norma dedicata a questa tematica è l’art. 4, che nei casi di cui agli artt. 7, 9 e 10 cp di reati commessi all’estero a danno dello Stato italiano, apre ad un’applicazione ultraterritoriale della legge italiana, della quale anche gli enti rispondono ad una duplice condizione, positiva e negativa.
Quella positiva è che l’ente abbia in Italia la sede principale, la seconda negativa implica che lo Stato del locus commissi delicti non proceda a sua volta contro l’ente, per evitare un bis in idem. Il legislatore non disciplina l’ipotesi inversa di reato commesso da ente che non ha chiari radicamenti in Italia, quando, secondo criteri art. 6 c.p., una parte dell’azione o omissione o evento si verifica sul territorio della Repubblica.
La giurisprudenza più recente, invece di interrogarsi sulle ragioni del silenzio, ritiene scontata la responsabilità anche dell’ente nel caso di responsabilità della persona fisica, senza la necessità di una norma espressa.
Come osservato da autorevole dottrina, se la soluzione fosse così semplice non avrebbe senso l’art. 4, che prescrive necessariamente che l’ente abbia la sede principale in Italia. Nella specie, si critica l’argomento fondato sul rinvio operato dall’art. 34 d.lgs. 231 al codice di procedura penale, da cui si desumerebbe l’automatica applicabilità anche gli illeciti amministrativi della stessa disciplina dei reati.
In realtà, la disposizione citata non stabilisce i limiti della giurisdizione penale, e come precisato dal legislatore si applica solo in quanto compatibile.
Allo stesso modo, non sarebbe corretto il riferimento all’art. 36, per cui la giurisdizione sull’illecito amministrativo segue sempre l’illecito di base, in quanto la competenza presuppone fondata la giurisdizione ma non la implica.
Ancora, quanto all’argomento fondato sul principio di uguaglianza, non sarebbe possibile dedurre la presenza dell’ente nel territorio nello Stato dalla semplice commissione del reato della persona fisica. L’ente è infatti distinto dalla persona fisica, e pertanto il suo radicamento nello Stato non coincide con quello del suo membro o organo. Quanto all’affermazione della Corte secondo cui l’art. 25 l. 218 del 1995, sulla legge applicabile in situazioni di conflitto, non potrebbe esonerare le persone giuridiche nel territorio dello Stato dal rispondere dei reati dei suoi componenti, si replica che l’indicatore spaziale dell’impresa non coincide con il trovarsi della persona fisica, rilevando sempre il criterio della sede principale.
Lo stesso art. 4, cumulando sede amministrativa e oggetto principale, conferma la necessità di un criterio di indicazione spaziale. La disposizione si salda idealmente con il criterio di imputazione soggettiva, basato sulla colpa di organizzazione. Questo giudizio di idoneità può essere formulato solo nel luogo dove l’organizzazione esiste, perciò il criterio della territorialità oggettiva di cui all’art. 4 è precondizione della colpa di organizzazione dell’ente per non avere conformato l’assetto ai doveri di diligenza. Le stesse sanzioni previste dal decreto possono essere applicate solo ad un ente che ha legami territoriali con l’Italia. La localizzazione dell’ente nel territorio dello Stato, con la sua «sede principale», costituisce la soglia sufficiente e necessaria per presumere instaurato per l’ente quel dovere informativo circa la materia del “divieto” che ne consente la sanzione in caso di inosservanza. A sostegno di questa ricostruzione, anche l’art. 25 della legge n. 215/1995, da non considerarsi circoscritto al lato civilistico, stabilisce un criterio per identificare il diritto applicabile dal giudice all’ente, indicando nella sede dell’amministrazione il criterio di collegamento per l’applicazione della legge italiana, a prescindere dal fatto che l’ente abbia la sede all’estero.
In definitiva, l’elemento di territorialità obiettiva, richiesto dalle norme citate, opera come una precondizione normativa del rimprovero per difettosa organizzazione.
Un altro problema derivante dalla frammentazione normativa è il rischio di violazione del ne bis in idem, specie al di fuori dello spazio europeo. Occorrerebbe quindi una nuova normativa internazionale, con un approccio equilibrato tra le esigenze della local compliance e della global compliance, tra efficienza e garanzie.
La questione non riguarda solo la transnazionalità dei crimini d’impresa, ma anche la mancanza di precisione delle normative, anche alla luce della continua evoluzione del mondo dell’impresa. Essendo in gioco anche la libertà di iniziativa economica privata, occorre superare l’ipertorfia del diritto penale, a favore di misure incentivanti di regolazione dell’economia.
La strada privilegiata deve allora essere quella dell’armonizzazione degli ordinamenti, che comporterebbe una più effettiva tutela dei beni giuridici coinvolti, primo tra tutti l’ambiente. Infatti la maggior parte dei disastri ambientali non è ricollegabile ad attività tout court illecite, ma al progressivo deterioramento degli ecosistemi causato dalle attività economiche e industriali.
Ma l’esigenza di internazionalizzazione in questo caso è anche nell’interesse dei soggetti coinvolti, che necessitano di un quadro normativo di compliance chiaro. Senza sconfinare nella citata over compliance, si deve tenere conto della pluralità degli ordinamenti giuridici nella formulazione dei modelli organizzativi.
Le prospettive di armonizzazione, dalla Convenzione di Palermo alla normativa europea: verso una nuova Convenzione delle Nazioni Unite
In ambito internazionale, la disciplina di riferimento è rappresentata dalla Convenzione di Palermo del 2000. L’art. 10 prevede, infatti, l’obbligo degli Stati membri di introdurre forme di responsabilità delle persone giuridiche, in relazione a reati gravi di criminalità organizzata. Si è così compreso che, di fronte all’utilizzo sistematico dello schermo societario per realizzare delle operazioni illecite, le sanzioni penali inflitte alle persone fisiche non sono sufficienti, essendo i singoli membri agevolmente sostituibili senza intaccare la politica d’impresa.
Ne consegue l’ineludibilità di sanzioni a carattere patrimoniale o interdittivo, che colpiscano l’ente nella sua essenza, con effetti realmente dissuasivi rispetto alla reiterazione dell’illecito.
Il nostro ordinamento ha dato esecuzione alla Convenzione ed ai Protocolli aggiuntivi delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale attraverso la legge 16 marzo 2006, n. 146, che ha ulteriormente ampliato il catalogo di reati rilevanti ai fini della responsabilità amministrativa degli enti ai sensi del d.lgs. n. 231/2001.
Sotto tale profilo, si è preso atto della necessità di uno strumento internazionale idoneo a contrastare la criminalità organizzata che, con l’apertura delle frontiere e un crescente grado di specializzazione, opera in un ambito geograficamente ed economicamente globale.
Ciò ha comportato una progressiva mimetizzazione delle strutture criminali e ad un’assunzione delle modalità operative tipiche dell’impresa criminale. Il contrasto alla criminalità organizzata deve pertanto configurarsi come una lotta ai patrimoni criminali ed alle imprese da questa costituite.
Nella Guida Legislativa predisposta dall’UNODC, si rileva che i reati gravi e di criminalità organizzata vengono spesso commessi per il tramite o sotto la copertura di persone giuridiche, come le società o le organizzazioni di beneficenza.
Al fine di rimuovere questo “strumento e scudo del crimine organizzato transnazionale”, il paragrafo 1 dell’art. 10 introduce l’obbligo per gli Stati parte di adottare le misure che possono essere necessarie, in coerenza con i propri principi giuridici, per stabilire la responsabilità delle persone giuridiche per: a) la partecipazione ai reati gravi (cioè puniti con pene detentive non inferiori nel massimo a quattro anni) che coinvolgono un gruppo criminale organizzato; e b) i reati previsti in conformità agli artt. 5, 6, 8 e 23 della Convenzione. A queste ipotesi si aggiungono, poi, i reati previsti dai Protocolli per gli Stati che aderiscono anche a questi ultimi strumenti normativi, sulla base delle regole generali che ne regolano i rapporti con la Convenzione (in particolare, il primo articolo dei tre Protocolli e l’art. 37 della Convenzione).
Il paragrafo 2 dell’art. 10 della Convenzione precisa che, fatti salvi i principi giuridici dello Stato Parte, la responsabilità delle persone giuridiche può essere penale, civile o amministrativa. La disposizione tende a riconoscere e ricomprendere i diversi modelli adottati dagli ordinamenti degli Stati parte rispetto alla responsabilità delle persone giuridiche.
Come segnalato nella Guida Legislativa predisposta dall’UNODC, questi diversi modelli di responsabilità riflettono diversi livelli di “condanna” e di tutela processuale: una condanna, inflitta da organi giurisdizionali con un livello molto alto di garanzie processuali, è sempre presente nei casi di responsabilità penale; invece nei casi di responsabilità civile o amministrativa può non esservi una vera e propria condanna, che è sostituita da una imposizione di sanzioni ad opera di autorità giudiziarie o amministrative.
Come dimostra la formulazione ampia della norma, non è importante la qualificazione formale in termini di responsabilità civile, penale, amministrativa, ma l’effettività in concreto della risposta sanzionatoria.
Il paragrafo 3 dell’art. 10 chiarisce che la responsabilità delle persone giuridiche è senza pregiudizio per la responsabilità penale delle persone fisiche che hanno agito. Infine, ai sensi del paragrafo 4 dell’art. 10, ogni Stato Parte deve assicurare sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive, di natura penale o non penale, comprese quelle pecuniarie.
La norma è applicazione del principio generale di cui all’art. 11, paragrafo 1, secondo cui le sanzioni devono tener conto della gravità del reato, sia sotto il profilo oggettivo, sia sotto il profilo soggettivo, connesso alla colpa dell’organizzazione, e rispecchia la differenza riscontrabile nelle legislazioni nazionali a proposito delle sanzioni applicabili, che in alcuni casi hanno natura penale, in altri extrapenale o “quasi penale”.
Al riguardo, uno spunto comparativo emerge dalla Guida Legislativa curata dall’UNODC. In particolare, le sanzioni più usate sono quelle pecuniarie, cui viene, di volta in volta, attribuita natura penale, extrapenale, o ibrida, la confisca, la restituzione, la revoca di determinati benefici, la sospensione di determinati diritti, il divieto di determinate attività, la pubblicazione della sentenza, la nomina di un fiduciario, la regolamentazione diretta delle strutture sociali, l’estinzione della persona giuridica. Alle sanzioni penali si associa un effetto stigmatizzante, ma anche la responsabilità civile o amministrativa può tradursi in efficaci misure organizzative. Più in generale, le sanzioni possono comportare cambiamenti organizzativi, con una “riabilitazione” della persona giuridica.
Come rilevato nella Guida Legislativa, l’art. 10 costituisce un importante riconoscimento del ruolo che le persone giuridiche possono svolgere nella commissione o nell’agevolazione della criminalità organizzata transnazionale. Peraltro, la responsabilità delle persone giuridiche può avere un notevole effetto dissuasivo, sia perché il danno reputazionale può essere molto costoso per l’ente coinvolto sia perché essa può generare strutture di gestione e controllo più efficaci per garantire l’osservanza delle norme.
Ferma l’innovazione compiuta, la dottrina ha osservato che la formulazione della norma appare caratterizzata da una debolezza prescrittiva, soprattutto rispetto ad altri modelli convenzionali affermatisi nell’ambito dell’Unione Europea e dell’OCSE, riscontrandosi una carenza nella definizione dei criteri di imputazione della responsabilità in capo alle persone giuridiche, posto che l’art. 10 non consente di distinguere tra i reati commessi dal vertice e quelli commessi dai sottoposti.
In secondo luogo, nella norma manca una enumerazione, sia pure esemplificativa, delle sanzioni interdittive, con la conseguenza che il legislatore nazionale è privo di indicazioni nell’introduzione delle pene che incidono direttamente sull’attività dell’ente e che rappresentano invece un punto nevralgico per l’effettività di un sistema sanzionatorio nei confronti delle imprese.
In terzo luogo, l’art. 10 non contiene una definizione del concetto di persona giuridica, probabilmente con l’intento di non sovrapporre una propria nozione a quelle nazionali.
Tuttavia, questa neutralità non favorisce un piano recepimento negli ordinamenti nazionali. Al riguardo, si è rilevato che la norma, nel parlare di legal persons, dovrebbe riferirsi a tutti i soggetti collettivi diversi dalle persone fisiche, non permettendo quindi una delimitazione all’interno della categoria degli enti collettivi. Inoltre, pur costituendo un primo passo per il superamento del principio societas delinquere non potest a livello transnazionale, essa non risolve l’ulteriore aspetto della configurabilità di una global compliance per le imprese, in quanto si rivolge agli Stati imponendo un obbligo generico di criminalizzazione, senza scendere nel dettaglio.
È pertanto necessario spingersi oltre, nella costruzione di una normativa sovranazionale più precisa per le imprese multinazionali. Su un primo fronte, è in discussione un Trattato Onu su diritti umani e impresa. Sotto tale profilo, si riconosce che non solo gli Stati, ma anche le imprese hanno un enorme impatto sui diritti umani, attraverso le politiche e le attività aziendali, e indirettamente per mezzo delle catene di fornitura o dei partners commerciali.
Per sopperire alla mancanza di una governance sui crimini d’impresa, negli ultimi anni del XX secolo ci furono i primi tentativi da parte dell’ONU di individuare delle regole sul rapporto tra ‘Business and Human Rights’, per regolare il comportamento delle multinazionali all’estero. Si fa riferimento, nella specie, al “The United Nations Code of Conduct for Transnational Corporations” degli anni Ottanta e alla bozza “Norms on the responsibilities of transnational corporations and other business enterprises with regard to human rights” del 2003.
Entrambi i progetti si sono arenati per i contrasti dei partecipanti. Nel 2011, un importante passo avanti è stato la creazione, da parte del Rappresentante Speciale dell’ONU, dei United Nations Guiding Principles on Business and Human Rights (UNGPs).
Gli UNGPs si articolano in 31 Principi, basati su tre pilastri. Il primo è il dovere dello Stato di garantire la protezione dei diritti umani dall’attività imprenditoriale. Il secondo riguarda la responsabilità delle imprese di rispettare i diritti umani, avvalendosi del processo di due diligence per evitare di violare i diritti altrui e far fronte ai possibili impatti negativi.
Infine, vi è la necessità di assicurare alle vittime degli abusi imprenditoriali l’accesso a misure di rimedio efficaci, sia attraverso procedura giudiziale che stragiudiziale.
Nello specifico, le imprese devono rispettare i diritti della persona sanciti nella Carta internazionale dei diritti umani e nella Dichiarazione dell’OIL, adottando degli strumenti, quali la due diligence obbligatoria e i meccanismi di reclamo a livello operativo, per prevenire, gestire e rimediare ai casi di violazione.
Infine, devono esprimere pubblicamente il proprio policy commitment ed effettuare rendicontazioni interne ed esterne su questi temi. Affermare che le imprese hanno la responsabilità di rispettare i diritti umani è diverso da imporre l’obbligo di proteggerli.
Soprattutto, i Principi Guida restano uno strumento di soft law, non sono uno strumento giuridico obbligatorio. Quello che manca oggi è un trattato internazionale vincolante per le imprese.
Nel 2014, dopo un acceso dibattito intergovernativo all’interno del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU, è stato istituito il Working Group on Transnational Corporations and Other Business Enterprises, con il mandato di elaborare una proposta di strumento internazionale vincolante sull’attività delle imprese in materia di BHR. La svolta ha subito incontrato le resistenze degli Stati membri dell’ONU, insieme a quelle delle associazioni industriali di categoria.
I negoziati procedono quindi con diverse difficoltà, con il rischio di un Trattato privo di una ratifica generalizzata, o comunque svuotato nel contenuto per raggiungere una soluzione di compromesso. Tuttavia, questo progetto rappresenta un’importante opportunità per indirizzare l’attività di impresa verso logiche uniformi di sostenibilità ambientale e di rispetto dei diritti umani. È interessante notare come, nella sua prima versione, esso prefigurasse una Corte internazionale sulle violazioni dei diritti umani da parte delle multinazionali. Proprio il ruolo delle Corti può contribuire alla governance delle dinamiche globali. Come rilevato da attenta dottrina, la globalizzazione ha accentuato la funzione giurisdizionale, con la sua visione multilivello nell’applicazione delle norme.
Le Corti non hanno solo una funzione di composizione dei conflitti, ma contribuiscono alla circolazione di principi e valori condivisi ed alla creazione di standard giudici globali, che riempiono i vuoti lasciati dalle normative nazionali.
In ambito europeo, le istituzioni dell’Unione hanno intrapreso un percorso più tradizionale, finalizzato all’approvazione di una normativa unitaria sulla due diligence applicabile ai paesi membri, accrescendo i poteri degli organismi europei e lo scambio di informazioni tra le banche nazionali, evitando che questa difficile lotta possa gravare solo sul mondo dell’impresa.
Il Parlamento europeo ha infatti approvato uno studio su una proposta di due diligence in due grandi settori, in particolare quello ambientale e della governance. L’iniziativa sembra quindi calibrata su una due diligence diretta per le corporations europee, una self regulation effettivamente attuata e sorvegliata, secondo un modello di cooperazione pubblico-privato.
Il principio cardine è quello della prevenzione dei reati. Attualmente, secondo il Parlamento europeo, solo il 37 per cento delle imprese esercita la due diligence in materia ambientale, difettando una vera cultura della prevenzione. La due diligence viene intesa come esercizio effettivo e non meramente burocratico. La proposta di Direttiva è stata pubblicata dalla Commissione europea il 23 febbraio 2022, in risposta alla risoluzione del Parlamento Europeo del marzo 2021.
L’obiettivo principale è di armonizzazione minima, si vuole affiancare un quadro comune con una soglia minima inderogabile, aggravabile dai singoli ordinamenti. La proposta della Commissione prevede l’obbligo per le imprese di individuare i rischi e, se necessario, evitare o attenuare gli effetti negativi delle loro attività sui diritti umani, come lo sfruttamento dei lavoratori, in particolare minori, e sull’ambiente.
Le imprese regolate dalla legge di uno Stato Membro o stabilite nel territorio dell’Unione, così come le società “non stabilite” operanti nel mercato interno, devono adottare una «due diligence strategy» per individuare, prevenire e mitigare le categorie di rischio indicate dalla proposta, ossia «human rights risk», «enviromental risk» e «good governance risk» (art. 1).
La «due diligence» deve riguardare tutte le operazioni e le «business relationships» che l’impresa intrattiene nella catena del valore (value chain), come definita dall’art. 3 della proposta. L’impresa svolge infatti una «value chain due diligence which is proportionate and commensurate to their specific circumstances, particularly their sector of activity, the size and length of their supply chain, the size of the undertaking, its capacity, resources and leverage» (art. 4, par. 9); a tal fine, la proposta indica alcuni strumenti, come codici di condotta o clausole contrattuali, con i quali le imprese possono assicurare che le proprie componenti transnazionali operino con diligenza rispetto alle classi normative di rischio rilevanti (art. 4, par. 10).
Le nuove norme offriranno alle imprese certezza giuridica e parità di trattamento, garantendo maggiore trasparenza ai consumatori e agli investitori. In relazione all’ambito soggettivo, sono contemplate, in primo luogo, le imprese dell’Unione Europea, come le grandi società con oltre 500 dipendenti e un fatturato netto a livello mondiale che supera i 150 milioni di euro, e le altre società che operano in determinati settori a impatto elevato, con più di 250 dipendenti e un fatturato netto a livello mondiale pari o superiore a 40 milioni di euro.
In secondo luogo, si fa riferimento alle imprese di paesi terzi attive nell’UE con un fatturato analogo a quello citato. Sono quindi interessate tutte le imprese, grandi o piccole, ed è scomparso il riferimento alle micro imprese. La proposta si applica alle operazioni delle società stesse, alle loro controllate e alle loro catene del valore (rapporti commerciali diretti e indiretti consolidati). Al fine di rispettare l’obbligo di due diligence, le imprese dovranno: a) integrare la due diligence nelle politiche aziendali; b) individuare gli effetti negativi reali o potenziali sui diritti umani e sull’ambiente; c) prevenire o attenuare gli effetti potenziali; d) porre fine o ridurre al minimo gli effetti reali; e) istituire e mantenere una procedura di denuncia; f) monitorare l’efficacia delle politiche e delle misure di due diligence; g) dar conto pubblicamente della due diligence.
Secondo l’art. 5, gli obblighi di due diligence si sostanziano nel riferimento espresso a documenti, da aggiornare annualmente, che contengano una descrizione dell’approccio della società, nel lungo periodo, alla due diligence, e un codice di condotta, che descriva regole e principi da seguire da parte dei dipendenti della società e le società controllate; in secondo luogo, si chiede una descrizione dei processi di due diligence e del sistema di verifica rispetto al codice di condotta, che è da estendere anche alle relazioni commerciali.
Aspetto rilevante nel progetto di direttiva è che l’adempimento degli obblighi di due diligence non esonera dall’obbligo di risarcimento dei danni. Sulle misure di prevenzione dei rischi, l’art. 7 della proposta menziona anche la ricerca di partner commerciali idonei e l’effettuazione di investimenti adeguati su produzione e infrastrutture.
Lo stesso la Commissione fa per le azioni necessarie a porre condotte a risolvere l’impatto negativo (art. 8 della proposta), disponendo l’obbligo per le imprese della creazione di una procedura di reclamo interna (art. 9 della proposta) a disposizione delle persone offese, sindacati e lavoratori, organizzazioni a tutela della catena del valore.
La Commissione specificherà tali punti anche con l’adozione di clausole contrattuali modello e linee guida (artt. 12 e 13 della proposta). Inoltre, le grandi società dovranno disporre di un piano per garantire che la loro strategia commerciale sia compatibile con la limitazione del riscaldamento globale a 1,5°C, in linea con l’accordo di Parigi.
Infine, la Commissione prevede espressamente, all’art. 25, un obbligo di diligenza degli amministratori volto alla considerazione dei fattori di sostenibilità nell’assunzione delle decisioni, nel medio e nel lungo periodo. A ciò l’art. 22 collega la responsabilità civile degli amministratori per i danni cagionati dall’inadempimento, con clausola di salvezza relativa al rispetto di determinati obblighi di compliance, in relazione all’adeguata gestione delle relazioni contrattuali. A tal fine, l’art. 21 prevede l’istituzione di un network di autorità di controllo, per stimolare e uniformare i controlli sugli obblighi di due diligence.
La direttiva, se attuata dagli Stati Membri (art. 4, par. 1) supererà la logica della volontarietà della due diligence, rendendo obbligatoria l’adozione, da parte delle imprese “europee” od operative nel mercato europeo, di quei soft regulatory frameworks sperimentati nella prassi per la governance dei processi economici transnazionali.
Inoltre, si stabilisce una soglia minima di responsabilità delle imprese, laddove si afferma che il contributo al danno deve essere ragionevole, sono cioè esclusi i contributi trascurabili alla verificazione del rischio. Non è possibile prevedere se la direttiva si limiterà ad integrare esclusivamene il modello di «enforced self-regulation» di cui alla responsabilità degli enti, oppure coprirà un settore più esteso. Indubbiamente, l’introduzione di un obbligo di «due diligence» per le imprese europee, comprensivo dei soggetti collegati o controllati dalla società, avrà un impatto significativo sia sul fronte della criminalità d’impresa sia sul fronte delle responsabilità individuali.
In tal senso, si potrebbe assistere ad un’amplificazione dei poteri di direzione e controllo e ad un’estensione dell’ambito della responsabilità colposa, qualora lo stesso obbligo di «due diligence» avrebbe potuto impedire il verificarsi di un evento lesivo nel contesto di società controllate o inserite nella value chain. In questa sede, ci si può limitare a rilevare come anche la disciplina delineata nella proposta di direttiva si inscriva nell’ambito del paradigma di «extraterritorial territoriality», veicolando una forma di regolazione transnazionale.
Conclusioni
Il tema della global compliance evidenzia la difficoltà di raggiungere un ottimale compromesso tra diritti umani e sviluppo economico.
Per effetto della globalizzazione, le nuove forme di potere si spogliano di ogni riferimento territoriale: questo mette in crisi il tradizionale rapporto tra lo Stato e i processi socio-economici, che non possono più essere adeguatamente governati a livello locale.
Nell’epoca attuale, la tutela di beni giuridici fondamentali non può che rispondere ad un’impostazione unitaria a livello internazionale, sulla base di un’armonizzazione giuridica e di una cooperazione finalizzate a fissare degli standard uniformi di tutela ambientale e dei diritti umani. Da un lato, l’internazionalizzazione del contrasto ai reati consente di evitare, soprattutto da parte delle imprese, pericolosi fenomeni di forum shopping e la creazione di zone franche.
Dall’altro lato, viene in rilievo l’interesse a svolgere le attività economiche entro un quadro normativo certo, onde scongiurare continui rischi penali. Sotto tale profilo, l’adozione di un determinato modello di responsabilità degli enti deve tenere conto anche delle esigenze delle imprese lecite, che, specie in una fase di rallentamento dell’economia mondiale segnata dalla pandemia, necessitano di misure sostenibili oltre che incentivanti.
Peraltro, la previsione di una compliance globale, oltre ad essere di complessa realizzazione, richiede più in radice una forte volontà politica degli Stati. In passato diversi interessi hanno ostacolato l’inclusione delle persone giuridiche tra i soggetti perseguibili per i più gravi crimini contro l’umanità. Il percorso intrapreso dalle istituzioni europee può rappresentare un importante banco di prova per una governance sovranazionale, anche in vista di una maggiore compattezza degli Stati membri in seno ai futuri negoziati dell’Onu.
La fuoriuscita del Regno Unito dall’Unione costituisce in questo senso una battuta d’arresto del processo di integrazione giuridica, ma non elimina il progressivo avvicinamento dei modelli di corporate liability propri dei sistemi di common law e di civil law.
L’auspicabile conclusione di questo cammino è l’approvazione di un Trattato delle Nazioni Unite sulla responsabilità delle multinazionali per le violazioni dei diritti umani; ciò completerebbe l’evoluzione del diritto penale moderno iniziata con la Convenzione di Palermo del 2000 contro il crimine organizzato transnazionale.